Medicina tradizionale e Medicina alternativa


1.

Una proposta di legge presentata in Parlamento sulle medicine non convenzionali (omeopatia, agopuntura, fitoterapia, chiropratica, ecc.), che prevede l'istituzione di cattedre universitarie, di corsi di formazione autorizzati dal Ministero della Sanità e di albi di esperti, ha scatenato una bagarre. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha approvato (con due sole astensioni) una mozione che critica il testo di legge, anticipando a breve termine un vero e proprio documento sulle medicine non convenzionali. La critica verte su due punti. Il primo riguarda il richiamo al pluralismo scientifico contenuto nell'articolo 1 della proposta di legge. Secondo il Comitato, tale principio, valido a livello politico e culturale, è improprio in rapporto alla scienza che, quale che sia il suo oggetto, deve giungere ad una teoria unitaria e non può riconoscere due verità in antitesi. Il secondo punto riguarda l'istituzione di cattedre universitarie che, secondo il Comitato, rischia di dare copertura ingiustificata a pratiche mediche non convalidate da una seria sperimentazione clinica. Tale copertura, tra l'altro, violerebbe il diritto dei pazienti al consenso ad essere informati sulla malattia e sulle terapie, comprese le percentuali di guarigione. Tali informazioni non esistono perché non c'è alcuna ricerca scientifica seria a riguardo.

Nell'attesa di leggere il documento promesso dal Comitato Bioetico, occorre dire anzitutto che le critiche avanzate dalla mozione sono piuttosto deboli. Per quanto riguarda il primo punto, non è vero che la scienza ha un carattere unitario. Nell'ambito della fisica e della biologia, il contrasto tra riduzionismo e olismo è tuttora in atto e dà luogo a teorie diversificate tra chi ritiene che il tutto sia semplicemente la somma delle parti o chi ritiene che esso comporti delle qualità emergenti che non sono spiegabili tenendo conto solo di quella somma. Nell'ambito della biologia evoluzionistica, poi, ponendo tra parentesi le ipotesi creazioniste, che sono dogmatiche, è ancora in atto un contrasto tra chi sostiene che l'evoluzione sia proceduta e proceda con una gradualità che attesta la fondatezza della selezione naturale e chi pensa che essa riconosca dei "salti" repentini attribuibili ad altri fattori. Il pluralismo scientifico dunque, almeno entri certi limiti, esiste, e non si stenta a comprenderne le ragioni. Esso potrebbe venire superato solo se la scienza avesse trovato una risposta definitiva a tutti i problemi posti dallo studio dei fenomeni naturali.

Il secondo punto è ancora più facile da confutare. La medicina convenzionale riconosce ufficialmente il criterio ex-juvantibus, per cui l'efficacia di un farmaco, di cui non si conosce il meccanismo d'azione, è convalidato dai risultati terapeutici. Non si vede perché questo criterio non possa essere applicato alle medicine non convenzionali, tenendo conto del fatto che, se anche non esistono ricerche serie, i sondaggi attestano che il 70% dei pazienti dichiarano di avere avuto benefici.

Certo, si può pensare che un discreto numero di pazienti che si affidano alle medicine non convenzionali scambino per conseguenze dei trattamenti risultati che potrebbero essere ricondotti al ben noto effetto placebo. La stessa cosa però può essere detta per numerosi pazienti che usano farmaci convenzionali, per esempio ricostituenti del sistema nervoso, epatoprotettori, ecc.

Io ritengo che la proposta di legge non solo sia legittima, ma necessaria. Il numero dei pazienti in Italia che si affidano a medicine non convenzionali è ormai imponente: 7,5 milioni si rivolgono all'omeopatia, 6,8 milioni alla chiropratica, 5,5 milioni alla fitoterapia, 3 milioni all'agopuntura. E' evidente che lo Stato non può rimanere inerte di fronte ad un fenomeno del genere che, tra l'altro, essendo prevalentemente privato, sfugge non solo a qualsivoglia controllo del Ministero della Sanità ma anche al fisco.

Al di là di quest'aspetto giuridico, l'ufficializzazione delle medicine non convenzionali e il loro insegnamento a livello universitario può rappresentare un momento di confronto serio con la medicina tradizionale.

Sarebbe ingenuo, però, non considerare che il fenomeno in questione va affrontato anche sotto il profilo psicosociologico e culturale.

2.

Una prima considerazione importante è che l’umanità non ha aspettato che nascesse la medicina positivistica, incentrata sulla conoscenza scientifica dell’anatomia, della fisiologia e della patologia, per lottare contro le malattie. Ovunque si dà una cultura, l’antropologia attesta l’esistenza di una "medicina". Esiste dunque una tradizione corposa di conoscenze empiriche, di teorie, di pratiche inerenti la salute e la malattia, le cui origini risalgono agli albori dell’umanità, che, in qualche misura, hanno funzionato assicurandosi il consenso sociale.

Dagli studi antropologici sulle medicine alternative si ricavano due dati interessanti. Il primo è che esse si riconducono univocamente ad una concezione olistica dell’essere umano, che va al di là della concezione psicosomatica occidentale, poiché implica il riconoscimento dell’organismo come un sistema in relazione di scambio con l’ambiente naturale e sociale. Nelle forme originarie, sciamaniche, prevale il riferimento sociale: la malattia e la morte è dovuta all’influenza di nemici. Successivamente, è prevalso il riferimento naturale: la salute dell’organismo si fonda sul mantenersi di un equilibrio interno sintonizzato sull’equilibrio cosmico.

Il secondo dato interessante è che l’efficacia, incontestabile per quanto relativa, delle medicine alternative nei luoghi d’origine è fortemente vincolata al consenso e alla credenza che i pazienti hanno in essa. Si tratta dell’efficacia simbolica di cui parla Lévi-Strauss in due capitoli famosi di Antropologia strutturale.

La medicina positivistica non tiene in alcun conto questi aspetti, in nome del fatto che, riducendo l’organismo umano ad un insieme di organi e riconducendo la salute al loro normale funzionamento, quegli aspetti si configurano come superstiziosi, quindi non scientifici. C’è senz’altro del vero in tale giudizio. Esso però non tiene conto del fatto che, mettendo da parte la superstizione, i dati citati non sono del tutto infondati. In particolare, è vero che l’organismo è un sistema olistico il cui equilibrio è qualcosa di più rispetto al funzionamento dei singoli organi, come pure che la fiducia accordata dai pazienti ai curanti e alle loro prescrizioni è un fattore importante, se non decisivo, nel produrre la guarigione.

Tenere conto di questi aspetti implicherebbe il superamento della medicina positivistica, degli organi, nella direzione di un nuovo paradigma sociopsicosomatico. Tale paradigma, di fatto, già esiste nelle sue linee generali: basta pensare all'opera più famosa di Balint - Medico, paziente, malattia - che è di alcuni decenni fa. Esso andrebbe rivitalizzato e aggiornato. La medicina positivistica, tronfia dei suoi eclatanti successi e ignara della iatrogenesi, non sembra però avere alcuna intenzione di sormontare il suo paradigma che è riduzionistico. Questa è la causa della crescente insoddisfazione che ha portato un numero sempre più rilevante di pazienti a rivolgersi alle medicine alternative.

3.

Tale insoddisfazione è riconducibile a due fattori del tutto diversi.

Per un verso, la medicina tradizionale si è ormai saldamente attestata su di un registro di specializzazione crescente che pone in luce sempre più nettamente il suo carattere di medicina di organi. Ciò significa che essa è rivolta ad identificare, diagnosticare e curare le malattie come se esse siano solo disfunzioni di un organismo o di un organo in particolare. Il paziente è colui che le alberga: la sua esperienza della malattia, la sua soggettività, il suo stesso essere un'unità psicofisica viene messo tra parentesi. La conseguenza è che la pratica medica corrente tecnicizza e burocratizza il rapporto tra curante e paziente. Quest'ultimo deve affidare il suo corpo come un oggetto agli esami e alle cure e deve seguire fedelmente le prescrizioni.

Il secondo fattore è la consapevolezza crescente che, nonostante i suoi progressi, i rischi legati alle pratiche mediche sono in aumento continuo. La iatrogenesi, minimizzata dalla medicina convenzionale ma accertata dalle statistiche, è drammaticamente presente a livello di opinione pubblica, laddove il tam-tam delle informazioni inerenti diagnosi errate, conseguenze negative di tecniche diagnostiche, interventi chirurgici nocivi, effetti collaterali gravi delle medicine, funziona misteriosamente ma implacabilmente.

La somma di questi due fattori orienta un numero sempre maggiore di persone verso le medicine alternative che privilegiano l'attenzione del curante nei confronti del paziente nella sua globalità di persona psicofisica, non comportano esami diagnostici pericolosi e escludono la possibilità che i farmaci omeopatici o fitoterapici danneggino.

Il fenomeno è incrementato dal fatto che il 60% dei pazienti che si rivolgono alla medicina convenzionale soffrono di disturbi funzionali (somatizzazioni ansiose o depressive) e/o di malattie psicosomatiche. Trattandosi di una percentuale così elevata, la medicina convenzionale non rinuncia di certo ad una domanda del genere che, tra visite, controlli, esami ripetuti e approfonditi, ecc. frutta un budget di tutto rilievo. Il problema è che la risposta medica, al di là delle visite e degli accertamenti diagnostici, è del tutto sprovveduta a livello di risposta. In molti casi, vengono poste diagnosi di comodo (artrosi, reumatismo, gastrite, colite, insufficienza epatica, ecc.), alle quali fanno seguito prescrizioni terapeutiche scarsamente efficaci (eccezion fatta per l'effetto placebo). Delusi nelle loro aspettative di guarigione, una quota di questi pazienti si rivolge infine alle medicine alternative. Un'altra quota di pazienti, ipocondriaci, con le loro richieste incessanti di analisi e di rassicurazioni, finiscono con l'estenuare i medici, i quali letteralmente li cacciano facendo presente loro che sono malati immaginari. Anche questi finiscono con l'ingrossare le file di coloro che si rivolgono alle medicine alternative, laddove le loro lamentele trovano ascolto poiché si dà per scontato che l'equilibrio psicosomatico è un fatto più complesso della salute dei singoli organi.

La proposta di legge in questione non fa altro che prendere atto di uno stato di cose e tentare di dare ad esso una cornice giuridica. Essa non affronta il merito della questione, che è invece più interessante delle diatribe tra medicina convenzionale e medicine alternative.

Il merito della questione è che gli esseri umani, condizionati dalla cultura medica convenzionale, ad esprimere parte del loro disagio esistenziale e dei loro problemi attraverso il linguaggio del corpo, si stanno disaffezionando ad una medicina che non è in grado di recepire tale linguaggio se non esplorando la possibilità che esso celi la malattia di un organo. Questa disaffezione comporta l'orientarsi della domanda verso altre forme di medicina, che sono ugualmente incapaci di decodificare quel linguaggio, ma almeno forniscono ascolto al paziente come persona. Che quest'ascolto e le pratiche terapeutiche cui esso dà luogo siano efficaci non attesta nulla sul piano della scientificità, ma significa che gli esseri umani continuano a comprovare l'efficacia simbolica di cui parla Lévi-Strauss.

Un salto di qualità antropologico potrà, forse, avvenire allorché essi prenderanno coscienza che il corpo, oltre ad essere vulnerabile e passibile di malattie, è anche il grande scenario attraverso cui essi esprimono i loro disagi esistenziali, i problemi, le frustrazioni, le rabbie. Con ciò non intendo augurarmi che essi si rivolgano agli psicologi o agli psicoterapeuti. L'augurio è che si decidano ad affrontare con strumenti umani problemi umani, vale a dire che si affranchino dai condizionamenti prodotti dalla medicina convenzionale senza regredire nella riabilitazione dello sciamanesimo.

Settembre 2004